C'è qualcosa che accomuna un reality ad un plotone di militari per un mese isolati in un posto pieno di parabole e telecamere. Con una imprescindibile differenza: nel secondo caso si lavora per scongiurare lo scoppio di una nuova guerra. Sulla 'blue line', la cicatrice che divide il Libano da Israele, gli italiani della missione Onu chiamata Unifil (United nations interim force in Lebanon) sono impegnati tutti i giorni affinché non ci siano sconfinamenti, equivoci o provocazioni che in un attimo incrinerebbero l'equilibrio instabile, un ossimoro coniato da loro.
Tra le montagne rocciose sul filo della frontiera a tratti invisibile tra i due Stati, ci sono proprio i peacekeeper del nostro Paese, impegnati nelle basi 1-31 e 1-32 Alfa: sono gli ultimi due avamposti più a sud in territorio libanese, in una foresta di antenne all'ombra del T-wall messo in piedi dal governo israeliano, un muro di cemento alto sette metri e sormontato da due metri di filo spinato, di cui sono stati finora costruiti i primi 17 chilometri. Solo un anno fa i nostri caschi blu della task force di Italbat si sono trovati al centro tra i razzi lanciati dai guerriglieri di Hezbollah e quelli in risposta dell'esercito di Tel Aviv. Il capo Unifil di allora aveva raccomandato "calma e moderazione". Sembra facile ma le scintille nascono da episodi banali, ad esempio gli sconfinamenti di qualche passo per le potature di alberi o cacciatori che cercano selvaggina e si addentrano incautamente: tutte violazioni che vengono poi segnalate durante le riunioni del cosiddetto Tripartito, che si tiene nella 132 Alfa, dove i rappresentanti dei due Paesi dialogano grazie all’intermediazione delle Nazioni Unite. E intanto, dalle torri delle basi, le vedette italiane maneggiano con i propri occhi la fragilità di quest'area, sotto lo sguardo dei binocoli che raggiungono qualsiasi episodio di rischio, tutti segnalati alle Laf, le forze armate libanesi.
"Restiamo qui a vigilare e pattugliare in media per un mese, alternandoci. Certo quello che pesa di più è la lontananza: siamo a duemila chilometri da casa", spiega il maresciallo Andrea Piccirillo, 29 anni di Pozzuoli, uno dei diciotto uomini della base 1-31, che sorge a ridosso del villaggio di Laguné. "Come passiamo il nostro tempo durante il riposo? Ci siamo organizzati e giorno dopo giorno abbelliamo questo posto", dice mostrando all'interno dei prefabbricati bianchi la palestra, l'area bar, il biliardino e le altre sale di svago che i militari hanno contribuito man mano a costruire lasciando un segno del loro passaggio nella base. L'età dei componenti all'interno della 1-31 è varia, dal ventenne alla sua prima esperienza al 45enne, mentre c'è chi adesso aspetta di tornare a casa in attesa che nasca il suo primo figlio.
Fuori dai presidi si snodano i centoventi chilometri di blue line, ben cinquantadue controllati dal contingente italiano nel settore ovest. A sud sulle montagne a Shama, Naqoura e sulla costa, dove anche il confine in mare è delimitato dalle boe, i lince bianchi con la sigla nera 'Un' (United nations) e la bandiera con il simbolo dei rami d'ulivo vanno e vengono spesso inglobando le vecchie Bmw di qualche civile che si ritrova casualmente nella colonna. Nella selva ai bordi degli sterrati polverosi ci sono le aree di sminamento, a cui ora da qualche anno lavorano i militari cinesi, mentre a segnare la linea di demarcazione sono i blue pillar, i piloni blu. Di pochi metri più a sud c'è la 'technical fence', la recinzione elettrificata di Israele estesa per ottanta chilometri che ha preceduto la costruzione del T-wall, con la videosorveglianza in cima pronta a scrutare chiunque. Anche qui sulla strada, come in tutto il sud, ai bordi capita di trovare altarini con i ritratti dei martiri della guerra del 2006, foto di ragazzi giovanissimi. Vista dall'alto, la geografia tagliata dalla barriera non mente: da una parte terre incolte o bananeti, dall'altra i campi verdi e rigogliosi di Israele.
Nonostante il confine da trincea, quella a sud vicino al mare resta comunque una zona dove si investe nel turismo locale, con resort sparsi qua e là, molti dei quali ancora in costruzione, mentre c'è chi scommette sul futuro edificando case da popolare in estate, quasi ignorando la povertà che aumenta. "I libanesi stanno vivendo una crisi di proporzioni storiche. Nonostante tutto noi continuiamo a mantenere la pace", spiega il generale Roberto Vergori, attuale comandante della Joint Task Force Lebanon - settore ovest. Una calma apparente che va oltre le narrazioni tra fazioni religiose o gli interessi di Paesi limitrofi. E da anni si svolge sotto l'occhio del Grande Fratello del Medio Oriente.