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La parola della settimana: riforma (di Massimo Sebastiani)

Dai Gracchi a Martin Lutero fino al dibattito novecentesco, quella delle riforme è una strada a dir poco tortuosa. Eppure non c'è momento politico o situazione complicata nella vita pubblica italiana in cui non vengano invocate, esaltate, programmate. Ma riformare vuol dire dare nuova forma o riportare alla forma originaria?

 

Ecco una parola che oscilla tra l’essere magica e l’essere una maledizione: se proviamo a fare una semplice ricerca in italiano su Google con il termine riforma in un terzo di secondo ci vengono restituiti circa 38 milioni di risultati.

E se applichiamo questa ricerca ai giornali degli ultimi quindici anni, l’occorrenza della parola è costante con fiammate specifiche in determinati periodi. E un cambio di governo (in Italia sono stati 8 negli ultimi 12 anni), più ancora se è un cambio deciso di colore politico, come è accaduto in Italia dopo la vittoria del centro destra con il governo Meloni, è un momento straordinariamente favorevole per parlare di e proporre nuove, importanti e risolutive (nelle intenzioni di chi le avanza) riforme. Eppure, come sappiamo, almeno in Italia, le riforme è più facile esaltarle e annunciarle che realizzarle o accoglierle.

L’elenco, anche sommario, è impressionante: fiscale, della Pubblica amministrazione (e quindi della burocrazia), della giustizia (queste tre è previsto che accompagnino il Pnrr), del welfare, istituzionale, scuola, formazione. Ma dai fratelli Gracchi, che fecero una brutta fine, alle condanne e scomuniche per le tesi luterane da parte della chiesa di Roma, fino al dibattito sulle riforme possibili o impossibili, costosissime o a costo zero, la storia delle riforme è, per usare un eufemismo, piuttosto tortuosa. Tommaso Nannicini, economista che è stato sottosegretario alla presidenza del Consiglio, le ha definite con una battuta la Salerno-Reggio Calabria della politica italiana Né Tiberio né Gaio Gracco, siamo a Roma nel II secolo avanti Cristo, usarono il termine riforma ma è la parola che fu poi adottata per esprimere il senso del cambiamento che prima l’uno poi l’altro tentarono di apportare nella Roma della tarda repubblica diventando tribuni della plebe. La riforma agraria di Tiberio e quella ancora più ambiziosa di Gaio erano nate dalla constatazione di un cambiamento, di un’evoluzione dovuta al diffondersi dei latifondi dopo le grandi conquiste di Roma nel terzo e del secondo secolo avanti Cristo. In altri termini, il tentativo di Tiberio e di Gaio fu quello di una redistribuzione: delle risorse, con la riforma agraria del primo, e del potere, con la più ampia trasformazione tentata dal secondo attraverso un ridimensionamento delle prerogative del Senato e un maggiore spazio per la classe sociale intermedia in ascesa. Ebbe la meglio il Senato: Tiberio fu gettato nel Tevere insieme ad altri 300 e Gaio, assediato sull’Aventino, si fece uccidere dal suo servo che poi si suicidò. La parola riforma, derivata dal verbo riformare che compare per la prima volta alla fine del XIII secolo e poi ancora nel 1519 negli scritti di Leonardo Da Vinci, discende dal latino reformare composto da formare e dal prefisso re, nel significato di formare in maniere contraria. E qui risiede l’ambiguità della parola che si è trascinata per secoli: riformare nel senso di modificare, dare nuova forma oppure nel senso di ‘rimettere a posto’, ‘rimettere nell’ordine primitivo’ come intendeva anche Leonardo e come risuona anche nella triste espressione ‘riformatorio’, la casa di correzione per minorenni traviati, come si scriveva alla fine dell’800. E’ quest’ ultimo, a ben vedere, il significato che al termine avevano dato Lutero e i suoi discepoli che, se così si può dire, fecero la fortuna della parola. La Chiesa riformata doveva essere infatti liberata dalla corruzione e dall’idea (e la pratica) che si potesse comprare la salvezza. ‘E’ meglio donare un centesimo al proprio prossimo – scriveva l’agostiniano Lutero – che costruire a San Pietro una chiesa tutta d’oro. La prima cosa infatti è comandata da Dio, la seconda no’.

A Lutero andò molto meglio che ai Gracchi: morì a 63 anni, un’età di tutto rispetto a quel tempo, ma soprattutto, benché scomunicato per eresia da Leone X, diede vita ad una confessione cristiana alternativa al cattolicesimo, minoritaria ma ben radicata tra Germania, Svezia, Norvegia, Danimarca, Finlandia e Stati Uniti. Fu il grande dibattito ottocentesco e novecentesco sulla contrapposizione tra riforma e rivoluzione a ‘indebolire’ per così dire il termine riforma tanto che, in certe occasioni, i ‘riformisti’ furono considerati solo pallidi trasformatori che si illudevano di poter operare un cambiamento sociale senza un radicale rovesciamento dell’ordine costituito.

La storia ha ampiamento dato ragione a loro, ma, tanto per capire quanto fosse radicata l’interpretazione ostile del termine riformista, basta ricordare un episodio che riguarda la storia culturale del nostro paese: quando il regista Pietro Germi, il cui talento poliedrico ha stentato ad essere riconosciuto in vita, fu definito ‘riformista moderato’ dalla critica di sinistra per le sue convinzioni socialdemocratiche, come ricorda Mario Sesti in un articolo pubblicato in occasione della presentazione a Cannes della versione restaurata del Ferroviere, film stroncato da quella stessa critica. Nonostante l’origine politica del termine, da sant’Ignazio alla psicoanalisi e al coaching, la riforma è però anche qualcosa che riguarda le nostre vite. Parliamo di riformare la nostra vita quando cerchiamo qualcosa (un credo, una pratica, uno stile di vita) che possa aiutarci a cambiare. Perché alla fine la parola chiave che è alla base delle convinzioni riformiste è ancora una volta cambiamento. E’ tutt’altro che semplice, come abbiamo visto all’inizio, ma è qualcosa dovrà certamente accadere come ci ricorda anche George Harrison in All things must pass.

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